Partiti senza democrazia (interna)

Con la fine del populismo selvaggio di marca grillina – anche se la malapianta populista, purtroppo, continua a circolare in altre forme nel sottosuolo del nostro tessuto democratico – può riprendere quota la politica e, con la politica, anche i suoi pilastri costitutivi. Ovvero, i partiti democratici e organizzati e le relative culture politiche di riferimento. Certo, non è affatto una operazione facile e né semplice. Anche perché la storia non si ripete mai meccanicamente. Però è altrettanto indubbio che la politica c’è, è attiva e protagonista ed è credibile solo se riesce ad organizzarsi, come recita la stessa Costituzione all’art.49, attraverso i partiti. Ma c’è una condizione decisiva ed imprescindibile se si vuol centrare questo obiettivo. Ovvero, si deve garantire sino in fondo la democrazia interna ai partiti stessi. Un tassello, questo, che era decisivo e qualificante nel passato e che lo resta tuttora. Per il semplice motivo che senza democrazia interna i partiti non esistono. Si riducono, cioè, a cartelli elettorali nel migliore dei casi o a meri strumenti nelle mani dei rispettivi capi o padroni. Da qui la definizione, giusta e calzante, di “partiti personali” o “partiti del capo”. Degenerazioni, queste, che hanno caratterizzato e accompagnato – salvo pochissime eccezioni – la politica italiana dopo il tramonto della prima repubblica e la cosiddetta “democrazia dei partiti”.

Ora, c’è una bella espressione coniata da Carlo Donat-Cattin verso la fine degli anni ‘80 quando, commentando una delle tante proposte di riforma istituzionale e costituzionale – se ne parlava già allora! – disse in modo molto chiaro e netto che “quando si vuol sapere che cosa pensano i partiti della riforma delle nostre istituzioni è appena sufficiente verificare come quei partiti praticano la democrazia al loro interno”. Mai definizione è stata più chiara e più precisa al riguardo. Ovvero, se all’interno dei partiti prevale una concezione dove il dissenso è bandito, dove le minoranze non esistono quasi per statuto e dove il tutto si riduce alla “fedeltà” al verbo del capo di turno, è evidente che anche le istituzioni democratiche non potranno che risentire di quella degenerazione e di quel deficit di democrazia. Un elemento, questo, talmente evidente che non richiede ulteriori commenti.

Ma per poter ritornare a quella stagione, seppur con modalità e contenuti diversi rispetto al passato, è altrettanto evidente che servono alcuni ingredienti decisivi: e cioè, centralità del confronto democratico, rispetto per le minoranze, valore della cultura politica, minore esaltazione del “capo” e promuovere una classe dirigente che non si limiti alla “democrazia dell’applauso”, per dirla con Norberto Bobbio. Cioè una classe dirigente che non faccia della “fedeltà” l’unico ed esclusivo criterio da perseguire con tenacia e determinazione. Dopodiché è altrettanto indubbio che i “partiti personali” o “del capo” sono anche il frutto di una sciagurata legge elettorale – almeno per il Parlamento – che non prevede più l’elezione democratica dei rappresentanti di Camera e Senato da parte dei cittadini ma la semplice “nomina” da parte del vertice centralistico dei partiti a cui gli elettori devono solo rispondere con la ratifica.

Ecco perché, se si vuol rilanciare nuovamente la “democrazia dei partiti” e non solo la “casta dei capi” è indispensabile e decisivo far ritornare la democrazia all’interno stesso dei partiti. Perché, come diceva appunto Donat-Cattin tanti anni fa, quando manca la democrazia interna ai partiti il rischio di far scivolare l’intero sistema politico lungo una china autoritaria è sempre dietro l’angolo. Di tutti i partiti, come ovvio. E non solo di chi ci fa comodo denunciare e con cui polemizzare quotidianamente e strumentalmente.

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