Coalizioni, non pallottolieri

Le coalizioni non sono pallottolieri. Per chi, come me, è stato educato alla politica attraverso la “democrazia dei partiti” da un lato e la “cultura delle alleanze” dall’altro, fatica a ritrovare le ragioni della buona politica in molti comportamenti che caratterizzano larga parte della vita pubblica del nostro Paese. A livello nazionale come a livello locale. E, nello specifico, di come oggi si costruiscono le alleanze politiche che, a rigor di logica, dovrebbero essere sempre fatte da partiti con una riconoscibile cultura politica e, altrettanto importante, con un programma di governo definito e immediatamente percepibile dagli elettori. Ma queste regole, alquanto elementari e basilari, quasi non hanno più cittadinanza.

È appena sufficiente osservare con attenzione ciò che capita nella costruzione delle alleanze nelle varie regioni per avere, purtroppo, una plateale conferma di un ormai radicato malcostume politico. A metà degli anni duemila Mino Martinazzoli, indimenticabile leader del cattolicesimo politico italiano, diceva che in Italia la “politica è sempre stata politica delle alleanze”. E cioè, al di là del sistema elettorale che di volta in volta può disciplinare il sistema politico, la costruzione delle alleanze era il postulato essenziale e decisivo per la conservazione e il rafforzamento della qualità della democrazia e per garantire la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. E lo storico esempio resta sempre quello fornito da Alcide de Gasperi quando nel lontano 1948 e dopo la straordinaria affermazione elettorale della Democrazia Cristiana, non volle dar vita ad un Governo monocolore ma ricercò, con tenacia e determinazione, la strada dell’alleanza con altri partiti centristi e laici per il suo esecutivo.

Un monito profetico, si potrebbe dire, che ha caratterizzato l’intera storia democratica del nostro paese. E, non a caso, quello della costruzione delle alleanze resta un pilastro decisivo che differenzia i partiti democratici da quelli populisti o da quei partiti che respingono alla radice la cultura della coalizione per motivazioni alquanto misteriose ed anacronistiche. Detto questo, però, e per tornare all’attualità, non possiamo neanche dimenticare un altro tassello costitutivo della cosiddetta cultura delle alleanze. E cioè, le coalizioni politiche non sono mai banali cartelli elettorali, pallottolieri inguardabili o semplici ‘ammucchiate’ di partiti, gruppi e movimenti.

 E questo perché le alleanze, o le coalizioni, rispondono – o dovrebbero rispondere – sempre a ragioni politiche, programmatiche e anche di natura valoriale, cioè culturale. Se, invece e al contrario, il tutto si riduce a una sommatoria di partiti uniti solo ed esclusivamente dall’odio implacabile nei confronti del nemico politico di turno non solo non si può più parlare di coalizione ma, addirittura, si tratta di una concezione politica debole, fragile e alquanto approssimativa. Perché quando sei accomunato soltanto dalla volontà di annientare o di criminalizzare, sotto il profilo politico ovviamente, il nemico giurato non è scientificamente possibile costruire un vero e credibile progetto di governo. Per queste ragioni, addirittura scontate nella loro essenzialità, si impone oggi la necessità, se non addirittura l’urgenza, di recuperare quella “cultura delle alleanze” che non solo resta un elemento di straordinaria importanza politica ma che, al contempo, crea le condizioni indispensabili per consolidare anche una vera e propria cultura di governo.

Certo, non possono essere i partiti populisti o quelli massimalisti ed estremisti i soggetti più indicati per farsi carico di questa sacrosanta esigenza democratica. Ed è anche per questi motivi che, ancora una volta, tocca ai partiti con una solida ed antica cultura democratica saper tradurre questa specificità politica e culturale nella cittadella politica italiana contemporanea. Senza la quale il populismo antipolitico e il massimalismo ideologico avranno buon gioco ad imporsi a scapito dei sinceri democratici e liberali.

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