SANITÀ

Visite a pagamento, goga mi goga. Partono le verifiche sulle Asl

Tutte le falle della legge voluta trent'anni fa da Rosy Bindi. La libera professione dei medici ospedalieri continua a crescere, come le liste d'attesa. Autorizzati à gogo per esercitare in studi privati. In Piemonte si preparano controlli sulle aziende sanitarie

C’è lo specialista dipendente di un grande ospedale piemontese, autorizzato a svolgere la libera professione in centro Italia. Un altro che tra non pochi laboratori diagnostici privati dove l’Asl gli consente di lavorare ne annovera pure uno al di là del confine con la Liguria. I camici bianchi che anziché fare visite a pagamento, fuori dall’orario di lavoro, ma all’interno della struttura pubblica offrono i loro servizi in strutture private sono la stragrande maggioranza in tutto il Paese. Il loro numero va crescendo, negli ultimi anni, in maniera a dir poco notevole e, come si vedrà, sempre più spesso incontrollata. Così come cresce, da Nord a Sud, la quantità di pazienti che di fronte a tempi di attesa che si contano, quando va bene, in mesi decidono di mettere mano al portafogli rivolgendosi agli ambulatori privati, dove lavorano medici del servizio pubblico. 

È il fantastico mondo di intramoenia, dove le regole a incominciare da quella espressa dal vocabolo latino (entro le mura), vengono rispettate meno del limite dei trenta all’ora, le leggi inapplicate, interpretate liberamente o, guarda caso nascoste quando sono palesemente a tutela dei cittadini. E intanto le liste d’attesa continuano a restare troppo lunghe.

Quasi trent’anni dopo la non proprio felice pensata dell’allora ministro della Sanità Rosy Bindi di introdurre la possibilità per i medici che avessero scelto un rapporto di esclusività con il servizio sanitario nazionale, di lavorare in libera professione all'interno delle strutture sanitarie, mostra tutte le sue storture che in parte erano state previste, tanto da inserire nella legge una serie di paletti, rapidamente abbattuti uno dietro l’altro in una gestione di questo sistema che oggi è tra le cause principali dei tempi di attesa e dell’aumento della spesa sanitaria delle famiglie.

E dire che tra i requisiti per autorizzare l’intramoenia, sintetizzata nell’acronimo Alpi (attività libero professionale intramuraria) al primo posto c’è proprio quello che essa “non comporti un incremento delle liste d’attesa per l’attività istituzionale”. Per comprendere la ragione di questa norma, palesemente disattesa, basta leggere il comma successivo dove si afferma che l’intramoenia può essere consentita a patto che “non comporti, per ciascun medico, un volume si prestazioni superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali”. Basta entrare in un qualsiasi ambulatorio privato, dopo aver cercato di prenotare una visita con il sistema sanitario per comprendere come quel volume sia spesso, se non sempre, capovolto. Comunque proprio per il fatto che l’attività venga svolta in strutture diverse da quelle dell’ospedale già rendono più complicato ogni controllo e verifica. E qui si torna al nome tradito nei fatti.

I dati nazionali confermano come sia in aumento anche la libera professione degli ospedalieri esercitata altrove, in spregio alla norma. Già nel 2010, nell’accordo tra Stato e Regioni, si rimarcava come la cosiddetta intramoenia allargata sia stata consentita in fase transitoria, sottolineandone la eccezionalità e, appunto, transitorietà confermando la possibilità di strutture esterne solo nel caso in cui la carenza di strutture e spazi aziendali fino al completamento da parte dell’Asl degli interventi strutturali per consentire questa attività. Ora, di fronte a ospedali che vedono spesso locali e apparecchiature inutilizzate per una buona parte della giornata, è davvero sostenibile e giustificabile l’enorme numero di autorizzazioni che ogni anno vengono rilasciate ai medici per lavorare altrove? Che fine ha fatto l’osservatorio per l’attività libero professionale con il compito di acquisire, tramite le Regioni, la situazione circa l’attivazione e la realizzazione degli spazi e delle strutture destinate all’attività libero professionale? Nel 2007 la legge fissava tempi certi, anche se poi più volte prorogati fino al 2014, per la realizzazione degli spazi poc’anzi citati. Così come era fissata al 31 dicembre del 2012 la ricognizione di tutte le strutture.

Un groviglio di deroghe e di norme applicate troppo spesso in maniera decisamente elastica, ha portato negli anni a una situazione inevitabilmente esplosa con l’accumulo di prestazioni per la pausa forzata del Covid e con un quadro attuale dove mesi di attesa per una visita o un esame non solo l’eccezione, ma la regola. Disagi che, chi può, cerca di evitare rivolgendosi al privato che, spesso, è poi lo stesso dipendente pubblico, altrettanto spesso autorizzato dai vertici delle aziende sanitarie e ospedaliere ad esercitare in strutture pure quelle private.

Un anno fa, quando l’emergenza era già conclamata, il direttore dell’Istituto Mario Negri, propose l’abolizione dell’intramoenia in cambio di un aumento del 30% degli stipendi dei medici, le cui rappresentanze di categoria salirono subito sulle barricate di fronte all’ipotesi. Il ministro della Salute Orazio Schillaci sarebbe tornato più volte sulla questione manifestando la necessità di una maggiore regolamentazione e di una revisione di una legge vecchia di trent’anni, “fissando dei limiti alle prestazioni erogabili in forma privata”. Alcune Regioni come Veneto e Toscana, hanno deciso di rendere pubblici gli introiti dei medici in libera professione con cifre che spesso raddoppiano lo stipendio, ma non dirado raggiungono livelli molto, ma molto più alti. Anche nei siti delle Asl del Piemonte è possibile vedere i guadagni dei camici bianchi in intramoenia e le sorprese non mancano. Introiti legittimi, naturalmente, ma che contribuiscono a rappresentare un fenomeno non privo di distorsioni. Negli stessi uffici di vertice della sanità regionale si sta lavorando a una verifica su tutto il territorio per stabilire se tutte le autorizzazioni rilasciate dalle Asl per esercitare l’intramoenia all’esterno degli ospedali siano giustificate, compresi i casi in cui lo stesso medico ha il via libera dal direttore generale per lavorare in più di uno studio privato, magari anche fuori regione. Una verifica che se non portasse a una maggiore attinenza alle norme, potrebbe preludere a ulteriori interventi, come l’obbligo per i direttori generali di motivare con una delibera, quindi un atto pubblico, ciascuna autorizzazione alla libera professione fuori dalle mura. Non dai limiti previsti dalla legge.

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