Le falle di uno Stato di diritto

In uno “Stato di diritto” accusa e difesa hanno gli stessi diritti e doveri. Accusa e difesa devono poter competere “ad armi pari” per la formulazione delle “verità processuali” (la verità assoluta non è alla portata dell’Uomo). La “verità processuale” dell’accusa e la “verità processuale” della difesa, supportate da evidenze di “fatti certi” e dimostrabili, saranno oggetto di un “processo” dove una “giuria”, o un “giudice”, avrà la grandissima responsabilità di valutarle ed emettere una sentenza di assoluzione o di condanna. Se la sentenza è di condanna lo deve essere “oltre ogni ragionevole dubbio” come previsto dall’art. C.P.P. per effetto della legge 46/2006 (legge Pecorella), in sostanza meglio un colpevole assolto che un innocente condannato.

Se dopo tutti i gradi di giudizio l’accusato è “condannato”, oltre che scontare la “giusta” pena dovrà pagare tutte le spese processuali, se invece viene “assolto” le spese processuali saranno a carico di chi ha formulato l’accusa. Se un indagato per aver diritto ai “domiciliari” deve “confessare” atti che non ha compiuto, in questo caso è giusto parlare di “intimidazione” da parte dell’accusa finalizzata a “strappare” una confessione che sia in sintonia con la “verità processuale” accusatoria (ricordiamo che l’imputato diventa colpevole solo e soltanto a seguito del processo e dopo il verdetto della “giuria”). In assenza di processo e relativo verdetto di colpevolezza la libertà del cittadino si deve limitare soltanto in casi eccezionali: per esempio, nel caso di un imputato di strage terroristica è giusto che la società si tuteli limitando la libertà dell’imputato, però, se, alla fine di tutti i gradi di giudizio, l’imputato dovesse essere assolto, chi lo ha ingiustamente accusato dovrebbe pagare sia le spese processuali sia un indennizzo proporzionale ai disagi che l’imputato ha ingiustamente subito.

Nel recente passato in Italia si sono celebrati processi, e condannati degli imputati, con la formula “non poteva non sapere” (usata molto dai magistrati di ”Mani Pulite”), formula che non è rispettosa delle garanzie dell’imputato, formula degna di un così detto “stato di polizia” (non democratico) dove sono sufficienti anche solo prove indiziarie per togliere la libertà ad un cittadino. Procuratori, giudici, avvocati, imputati appartengono tutti quanti alla specie “umana”. Nessuno è antropologicamente diverso.

Oggi sappiamo, dalle ricerche dei neuro-scienziati, come il cervello umano può, in tutta “onestà intellettuale”, fare errori macroscopici, quindi, per la sicurezza di tutti i cittadini, è necessario che funzioni delicatissime, come quelle di chi deve amministrare la giustizia, non siano mai autoreferenziali e rispondano, in tutte le sedi, degli errori commessi. Come ci insegna la “teoria dei sistemi”, tutti i sistemi devono essere “contro-reazionati” da funzioni di controllo che “inducono” al migliore funzionamento del sistema stesso. L’attività svolta dai procuratori della repubblica (Pm) è indispensabile per una nazione e la grande maggioranza di chi sceglie questo lavoro lo fa con diligenza ed onestà intellettuale, ma non possiamo pensare che la sola laurea in giurisprudenza, l’aver superato un concorso di Stato, e avere onestà intellettuale, renda le persone infallibili. Ecco perché in uno Stato di Diritto nessuna professione deve essere esente da rispondere per gli errori commessi, così come già avviene per medici, amministratori di azienda, commercialisti, ingegneri, politici.

Qualcuno potrebbe asserire che se un procuratore dovesse rispondere delle accuse che in seguito si rivelino ingiuste, sarebbe indotto a non perseguire con la dovuta tranquillità le ipotesi di reato, ma proprio qui sta il ”vulnus”. Le ipotesi di reato sono “ipotesi” e non “reati” conclamati, quindi è corretto indagare e raccogliere prove ma senza informare, ad esempio, organi di stampa ecc. Dopo aver raccolte le prove, se si ritiene che siano sufficientemente circostanziate, si formula l’atto di accusa per il processo, altrimenti si archivia.

Oggi in Italia il Governo vuole togliere la “prescrizione”. Senza entrare nel merito, voglio dare alcuni dati oggettivi: in Italia un processo penale che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio dura in media 1350 giorni (quasi quattro anni), la durata media dei Paesi membri del Consiglio d’Europa è invece di 424 giorni (poco più di un anno). In Francia, ad esempio, i termini di prescrizione del reato variano in base alla qualificazione giuridica dell’illecito. Il codice stabilisce un termine di dieci anni per i reati più gravi giudicati dalla corte d’Assise, tre anni per i delitti e un anno per le contravvenzioni.

print_icon