I mezzi e il fine della protesta

Stefano Feltri direttore di “Domani” in un editoriale di qualche giorno fa ha scritto: “Hanno ragione loro, i quattro attivisti di Ultima Generazione che hanno imbrattato il palazzo del Senato italiano. Hanno ragione loro perché la politica italiana si indigna per un po’ di vernice e non per la traiettoria inesorabile della specie umana verso un destino di calamità e, forse di estinzione. (…) Hanno ragione loro perché con queste azioni dimostrative, che si tratti di blocchi delle strade o di vernice sui vetri che proteggono capolavori dell’arte, rivelano che noi, come collettività, siamo interessati soltanto a proteggere lo status quo, ma non siamo disposti ad alcun cambiamento radicale”.

La maggioranza degli italiani non solo non partecipa ma nemmeno approva le azioni di protesta degli ecologisti di “Ultima Generazione” anche se, sino ad oggi, il contenuto di violenza con cui si esprimono, si è scagliato solamente contro opere d’arte e simboli istituzionali dello Stato non arrecato danni alle persone. Personalmente non ritengo di dover condannare chi, con coraggio e a rischio della propria libertà ed incolumità, protesta, anche vigorosamente, per affermare la propria visione politica contro il potere costituito, democratico od autocratico che sia. Politica, come scritto sull’enciclopedia Treccani, significa: “Il complesso delle attività che si riferiscono alla ‘vita pubblica’ e agli ‘affari pubblici’ di una determinata comunità di uomini. Il termine deriva dal greco pòlis («città-Stato») e sulla scia dell’opera di Aristotele “Politica” ha anche a lungo indicato l’insieme delle dottrine e dei saperi che hanno per oggetto questa specifica dimensione dell’agire associato”.

Le più importanti rivoluzioni hanno contribuito al miglioramento della qualità della vita dei cittadini e sono quasi sempre nate da gesta violente di una esigua minoranza che ha saputo rappresentare così bene il desiderio del “popolo” da indurlo a partecipare attivamente al processo rivoluzionario o comunque a non ostacolarlo. Il pensiero corre alla Rivoluzione francese: cittadini come Robespierre, Saint Just e centinaia di altri giovani, pagarono con la vita, con la ghigliottina, la loro voglia di rovesciare lo Stato costituito. Penso ai Partigiani italiani, di certo non maggioranza del Paese, che, per promuovere una diversa idea politica dello Stato, sfidarono la morte combattendo contro il potere costituito.

Lo Stato, di qualsivoglia tipologia, da sempre si difende da chi lo combatte trattandolo come un delinquente comune alla stessa stregua di un rapinatore di banca che persegue la sua ricchezza e, solo quando le evidenze sono inconfutabili, ammette di essere in presenza di un “delinquente terrorista” e giammai di un “terrorista politico” che lotta per ideali di giustizia secondo un paradigma alternativo. È questo che fece lo Stato francese nel 1789, quando sparò sui cittadini che protestavano alla Bastiglia, o lo Stato italiano nel 1943 quando considerò i partigiani dei banditi. Anche le Brigate Rosse (Br) sono state considerate nuclei di delinquenti; eppure, anche loro lottavano per una “nuova” giustizia convinti che «la politica dovesse essere intesa solo come azione, come attacco frontale e senza riserve». I molti giovani, che aderirono al progetto rivoluzionario, condividevano la scelta di scardinare il sistema di gestione del potere politico, in mano ad esponenti della precedente generazione che non potevano esser rimossi per via democratica, senza far ricorso a mediazioni diplomatiche. I “brigatisti” volevano una società egualitaria in cui marxismo e cattolicesimo radicale fossero fusi insieme. Lo stesso Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, ebbe ad affermare che «Gesù Cristo fu il primo comunista della storia». I brigatisti ritenevano di dover proseguire l’«incompiuta lotta di liberazione partigiana dell'Italia»: come i partigiani avevano liberato il popolo dalla dittatura nazifascista, così loro lo avrebbero liberato dalla servitù delle multinazionali.

Un caso emblematico fu quello della “Banda Cavallero”. La feroce gang si formò a Torino in una piòla di Corso Vercelli, in Barriera di Milano, dove si ritrovavano spesso persone disoccupate a passare il loro tempo a discutere di politica, di rivendicazioni sociali, giocando a scopone o a tressette e dove, negli anni Cinquanta, chiamarsi compagno aveva un significato ben preciso. Questi attivisti comunisti erano molto critici nei confronti della linea ufficiale del Pci, e così prese corpo l’idea di formare una banda per compiere rapine al fine di finanziare i movimenti di liberazione. Tra l’8 aprile del 1963 e il 25 settembre 1967, la banda mise a segno ben 18 rapine in banca, a Torino, nella cintura torinese, e a Milano, uccidendo sette persone e ferendone una trentina e, come dichiarato dallo stesso capobanda Pietro Cavallero durante le deposizioni processuali, le loro reiterate rapine in banca erano motivate da un desiderio rivoluzionario di giustizia sociale. I suoi cinque componenti, ognuno con un preciso ruolo tattico nella conduzione delle rapine, erano: Pietro Cavallero, il capo carismatico, nato e cresciuto in Barriera di Milano, attivista comunista; Adriano Rovoletto, il cassiere della banda; Sante Notarnicola, vice di Cavallero, che aveva ricoperto il ruolo di segretario della Fgci di Biella; Danilo Crepaldi, sedicente geometra di Aosta che, in seguito alla sua morte in un incidente aereo nel 1966, fu sostituito dal diciassettenne disoccupato Donato Lopez. Fortemente politicizzata la banda Cavallero simpatizzava per le idee di sinistra ispirate a Lenin ma anche all’anarchia nichilista di Gaetano Bresci (regicida di Umberto I) e di Ravachol (anarchico francese). Nel 1967 dopo aver svaligiato l’agenzia 11 del Banco di Napoli a Milano, vennero catturati, processati e condannati. Gli imputati, alla lettura della sentenza, si alzarono in piedi e intonarono la canzone anarchica “Figli dell’officina”, canzone dell’anno 1921, anno clou delle rivendicazioni sindacali degli operai torinesi. A conferma della liaison tra la Banda Cavallero e la lotta politica armata, nell’aprile 1978 Sante Notarnicola, che si era dichiarato “detenuto politico”, fu indicato dalle Brigate Rosse nell’elenco dei 13 prigionieri rivoluzionari che lo Stato avrebbe dovuto rilasciare in cambio della liberazione di Aldo Moro. In carcere Sante Notarnicola studiò, lesse e scrisse. L’editore Feltrinelli pubblicò il suo primo libro nel 1972, “L'evasione impossibile” e nel 1979 Primo Levi, relativamente ai suoi scritti poetici, ebbe a dire che le sue poesie erano quasi tutte belle, «alcune bellissime, altre strazianti» e sulla poesia “Posto di guardia” affermò essere «miracolosa per concisione e intensità».

Nella Storia i rivoluzionari-terroristi che vinsero sullo Stato vennero considerati “eroi”, mentre coloro che persero furono puniti come pericolosi delinquenti, imprigionati, torturati e spesso sommariamente giustiziati. Come non ricordare l’amara lezione impartita a tutte le future generazioni da Brenno, condottiero Gallo, che nel 390 a.C. dopo aver pattuito quanto i Romani avrebbero dovuto pagare ai Galli Senoni in metalli nobili vedendo i piatti della bilancia ormai in equilibrio, sfoderò la pesante spada e, gettandola sul piatto opposto a quello in cui era posato il riscatto, gridò: “Vae Victis (Guai ai vinti)!”. Chi oggi scrive “hanno ragione loro” e chi, come me, vede con occhio benevolo i movimenti di protesta e ribellione contro il potere costituito, riuscirà sempre a difendere questa opinione pur sapendo, come ci insegna la Storia, che l’aumento della protesta implica l’aumento della violenza sino ad arrivare ad estreme e sanguinose conseguenze(punto di domanda) Chi oggi plaude alle azioni degli attivisti di “Ultima Generazione” che hanno “profanato” il Senato della Repubblica fino a che punto sarà disposto a prenderne ancora le parti scrivendo “hanno ragione loro”? Fino a quando è giusto affermare che il fine giustifica i mezzi?

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