Alessandria, le ragioni del declino

In questa nostra città capita, ciclicamente, di dover assistere ad un dibattito sul suo declino economico e demografico. Questo, di norma, avviene quando una storica attività commerciale, meglio se situata nelle vie del centro, decide, per le più svariate ragioni, di cessare l’attività. E i ragionamenti che si producono, così come la ricerca delle cause e dei possibili rimedi, tendono a concentrarsi sulle difficoltà e gli ostacoli che vive il settore del commercio tradizionale. Così, da un lato, si denunciano le limitazione del traffico e la carenza dei parcheggi e, dall’altro, si reclamano zone pedonali più ampie e meglio curate. Posizioni che, infine, convergono nel prendere atto del numero e del peso crescente della grande distribuzione, delle vendite online e della vicina concorrenza degli outlet. E’ certo positiva l’organizzazione associativa che si sta manifestando da parte del settore nei quartieri o per singole vie, ma difficilmente risulterà risolutiva della fase di difficoltà che, da tempo, la città attraversa. E il far convergere le responsabilità, in prevalenza, sul comparto che oggi, maggiormente, subisce le conseguenze della crisi potrebbe non aiutare a comprendere i motivi strutturali del declino alessandrino.

C’è stato un tempo nel quale i partiti e i loro rappresentanti nelle istituzioni, per meglio definire i programmi delle amministrazioni, promuovevano la pubblicazione di ricerche e studi volti ad analizzare la condizione delle diverse attività produttive e indagare sullo stato dell’occupazione. Uno di questi, del maggio 1969, a cura del Comune capoluogo e dell’Unione Industriale si occupò, in particolare, dell’industria e delle aree a questa destinate. Il risultato più sorprendente che emerse riguardò (nelle aziende con più di cinque addetti) il numero degli occupati nei diversi comparti industriali. Questi, 8870 nel 1968, risultarono di poco superiori a quelli registrati nel censimento industriale del 1911, di quasi sessanta anni prima. Con una popolazione che nel periodo era, però, cresciuta di quasi 12 mila unità. Gli autori dello studio registrarono, “con una non celata inquietudine”, la progressiva diluizione della componente industriale nell’insieme dell’occupazione comunale e si interrogarono se questa corrispondeva, o meno, a una più precisa vocazione terziaria del capoluogo, o se si era di fronte a un fisiologico trapasso verso la preminenza post industriale dei servizi.[1]

 

Il progressivo ridimensionamento dell’industria

Per quanto riguarda i settori, il metalmeccanico e l’argentiero risultavano i più consistenti, quelli che maggiormente erano cresciuti e si erano consolidati, mentre il comparto che per decenni aveva avuto un preminente peso nel complesso dell’industria alessandrina, l’abbigliamento, era contrassegnato dal processo di ristrutturazione della Borsalino, la più antica fabbrica italiana di cappelli di feltro e dal ridimensionamento del settore calzaturiero.

Così, oltre mezzo secolo fa, quei rilievi suscitarono una fondata preoccupazione per quella che, in prospettiva, sarebbe risultata la causa prima del mancato sviluppo e del declino di Alessandria: la crisi e il progressivo ridimensionamento dell’apparato industriale. Per porvi rimedio l’amministrazione comunale di centro-sinistra di allora  individuò nella politica di pianificazione il mezzo con il quale l’Ente si proponeva di diventare il soggetto propulsore dello sviluppo economico e sociale del territorio.

Gli strumenti essenziali di tale politica riguardarono la revisione del Piano Regolatore Generale e l’acquisizione di terreni da destinare a nuove “aree industriali” capaci di attirare anche grandi complessi industriali.

Il primo strumento, con poche modifiche, è tutt’ora in vigore, mentre il secondo ha portato, nel 1971, all’insediamento dello stabilimento Michelin a Spinetta Marengo. Ma le ambizioni della politica di pianificazione erano maggiori e scommettevano, da un lato, sulle potenzialità espansive del Porto di Genova verso l’oltregiogo ligure, cioè l’alessandrino e, dall’altro, al decentramento industriale di Torino. Con l’obiettivo di mettere nelle condizioni Alessandria di esercitare il ruolo di “area cerniera” tra i sistemi economici  territoriali del “Triangolo industriale”.

 

La città scende sotto i 100 mila abitanti

A metà degli anni ’70 gli studi del CEDRES[2] della Provincia prendevano però atto che l’esperienza della programmazione doveva considerarsi fallita, tanto sul piano regionale, quanto su quello provinciale. Nella sostanza Torino, anziché decentrare attività del comparto industria, le aveva ulteriormente accentrate e, sul versante ligure, si era registrato il carente sviluppo del Porto di Genova. Il mancato raggiungimento degli obiettivi della pianificazione ha pesato negativamente sulle prospettive economiche e sociali dell’intera provincia, ma ha coinvolto soprattutto l’apparato industriale del Capoluogo. Gli ultimi due decenni del secolo scorso hanno infatti visto la decimazione delle aziende metal meccaniche e l’azzeramento dell’intero comparto argentiero alessandrino, con la cancellazione di centinaia di posti di lavoro. Senza che tutto ciò determinasse l’avvio di una riflessione sulle cause evidenziando, in contraddizione con il dinamismo manifestato in passato, la povertà di nuove iniziative imprenditoriali. Una condizione che perdura tutt’ora e rappresenta un elemento fondamentale del declino.

Così gli addetti all’industria del Comune di Alessandria che erano 15.425 nel 1961 scendono a 11.264 nel 1991 e a 9.919 nel censimento del 2001, quando, in controtendenza per lo sviluppo del gruppo Guala, l’industria della plastica raggiunge i 944 addetti.[3] Nello stesso periodo si espande senza qualificarsi il terziario e i giovani, o se ne vanno, o restano spesso senza lavoro.

Una situazione che incide anche sul reddito pro capite del Comune. E l’andamento demografico nel secondo dopoguerra bene asseconda quello produttivo e occupazionale della città: tra il 1951 e il 1974 la popolazione aumenta e passa da 82.137 a 103.862 abitanti residenti, mentre, a partire dal 1974 si registra un lento, ma costante calo che porta gli abitanti a un minimo storico di 91.298 unità nel 1995.[4] Un declino dovuto, sia al peggioramento del saldo demografico che, a partire dal 1975, dal segno negativo che si è verificato nel saldo migratorio. Una conseguenza, quest’ultima, della ridotta capacità occupativa del territorio. Va altresì considerato che il numero degli attuali abitanti (91.936 al 31/12/2023) si mantiene anche grazie a una significativa presenza di cittadini stranieri (13.850 nel 2022 pari al 15,2%) i quali, in generale, hanno un reddito e una capacità di spesa inferiore agli altri abitanti.

 

Lo Scalo ferroviario e  l’Università: poli di un nuovo sviluppo

Nel dopoguerra la città di Alessandria era segnalata, non solo come “al centro del triangolo industriale”, ma come “nodo ferroviario di primordine, secondo solo a quello di Bologna”. E lo “Smistamento” occupava un migliaio di addetti. In pochi anni lo spostamento della logistica delle merci dal ferro alla gomma e la scelta, all’inizio degli anni 2000, del tracciato dell’alta velocità ferroviaria sulla direttrice Torino-Milano-Roma hanno portato all’emarginazione dello scalo e accresciuto le difficoltà di collegamento ferroviario di Alessandria. Aumentandone l’isolamento e determinando, insieme al ridimensionamento dell’industria, un secondo e fondamentale elemento del suo declino.

Cinque anni fa, quando in pochi ci credevano, per contrastare questa tendenza l’associazione “Città Futura” e la Camera del Lavoro provinciale hanno promosso un convegno per il recupero e il rilancio dello Scalo merci di “Alessandria Smistamento”. Di recente, per i crescenti problemi legati a una mobilità delle merci quasi esclusivamente su gomma, il trasporto su ferro è tornato competitivo e, anche per il costante impegno di Slala, il sostegno delle amministrazioni e dei  parlamentari, Rfi ha presentato un dettagliato piano di riorganizzazione e rilancio dell’ampia area dello scalo alessandrino. Di cui sono stati indicati i tempi di realizzo e quantificati gli investimenti.

Una struttura tecnologicamente avanzata, riferimento delle produzioni di un vasto territorio e di una logistica volta anche alla lavorazione dei prodotti e non solo alla loro dislocazione. Nell’auspicare non si ripetano le resistenze e le opposizioni che, nel passato, hanno impedito la realizzazione di analoghi progetti, dobbiamo avere la consapevolezza che dalla innovata ripresa dell’area dello storico “Smistamento” e dai nuovi posti di lavoro che si creeranno passa uno dei fondamentali elementi in grado di contrastare il declino del territorio alessandrino.

Una realtà che, in  assenza di interventi, in prospettiva risulterebbe tra le peggiori per la carenza di persone in età lavorativa (15-64 anni).[5]               

Negli anni non sono però mancate, anche in campi nuovi, le occasioni per invertire la decrescita e tornare a sviluppare la città e il suo territorio. La conquista, dopo un aspro confronto con Torino, dell’autonomia  dell’Università tripolare del Piemonte Orientale ha rappresentato, nel 1998, il raggiungimento di un obiettivo lungamente perseguito dalle istituzioni locali. Per diverse ragioni, compresa una iniziale maggiore propensione delle forze economiche della città per la sede decentrata del Politecnico, questa importante opportunità non è stata, sin qui, pienamente colta. Con maggiore impegno si è attivata la città di Novara la cui sede, dotata dei principali servizi (mensa, alloggi, campus) ha il doppio degli studenti di Alessandria.

Per onestà va detto che, in questo, hanno non poco influito le scelte dei Rettori dell’ateneo che verso quella realtà, da cui quasi tutti provenivano e provengono, hanno indirizzato le maggiori risorse. In ogni caso l’obiettivo di qualificare e potenziare la sede alessandrina dell’Upo, difendendo, qualificando e valorizzando tutti i suoi dipartimenti e i suoi attuali insediamenti, va fortemente perseguito. Rivendicando con maggiore determinazione le risorse per quei servizi: biblioteca, mensa, alloggi, spazi per gli studi, che tutt’ora mancano agli studenti. Da questo punto di vista la conferma di palazzo Borsalino come sede delle facoltà umanistiche è stata una decisione saggia. Occorre, infatti, un Ateneo che non si isoli nei confronti del contesto urbano, ma sappia rapportarsi e collegarsi alle altre istituzioni formative e culturali della città, con l’ambizione di diventare, sempre più, l’Università di riferimento per i ragazzi dell’intera provincia. Rappresentando un altro fondamentale elemento utile per il rilancio del Capoluogo.

Mentre sono iniziati i lavori per il recupero del Teatro Comunale e si auspica, con la piena conservazione, il ritorno ad un utilizzo funzionale della fortezza “Cittadella”, rimane, al momento irrisolto, il futuro del comparto industriale che tradizionalmente ha rappresentato i momenti alti dello sviluppo di Alessandria. Naturalmente in campi nuovi caratterizzati da una forte innovazione.

La risposta su una sua concreta, o meno, possibilità di ripresa non può che venire, in primo luogo, dalle associazioni delle imprese. A questo fine certo aiuterebbe, come capitava in passato per merito del CEDRES, una ricerca, uno studio sull’andamento dell’occupazione industriale dei diversi settori negli ultimi decenni.

*Renzo Penna, Associazione “Città Futura”


[1] La pubblicazione del “Quaderno” è stata curata da Mario Bruno, per conto dell’Ufficio Studi dell’Ente e da Dario Fornaro, dell’Ufficio Studi dell’Unione Industriale provinciale.

[2] CEDRES: Centro Documentazioni e Ricerche Economico-Sociali della Provincia di Alessandria curati dal Direttore Carlo Beltrame

[3] Guido Barberis e Giancarlo Subrero: “La famiglia economica alessandrina”. Isral Le Mani, 2008

[4] Ibidem

[5] Radiogold.it: “Recessione demografica popolazione lavorativa: Alessandria la quarta peggiore”. 15 aprile 2024 - Dati dell’Ufficio Studi della Cgia

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